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Un’altra Africa

   
No, qui non ci sono più leoni, o gazzelle o – se è per questo – facoceri. Vivono beninteso poco lontano, visto che alla periferia di Nairobi c’è un “piccolo” parco nazionale con quasi tutti gli animali importanti e noi stessi nel lungo viaggio in bus che ci ha portati qui da Arusha lunedì abbiamo potuto ammirare zebre e gazzelle che pascolavano ai bordi della statale dove si rincorrevano i camion (“But.. this is like a safari” ha urlacchiato dal retro la ragazza canadese che era appena scesa dal Kilimagiaro).

È che per questi ultimi giorni in Africa orientale, con l’aiuto della nostra amica Francesca, stiamo cercando di vedere qualcosa di diverso dalle giraffe sotto le acacie e così stamattina siamo saliti in cima al Kenyatta Conference Centre, gloria della città amministrativa e commerciale, e dall’eliporto abbiamo visto che cosa è oggi Nairobi.

    
Nairobi è fatta a strati socialmente molto distanti. Ieri abbiamo visitato Mathare, il secondo slum della città, guidati dai giovani kenyoti del Canada Mathare Education Trust, una ONG che fornisce borse di studio a giovani del posto perché possano fare le superiori altrove e poi li re-impiega come “facilitatori” nella comunità per svolgere opera di mentoring e di formazione civica e motivazionale per i ragazzi che seguono le scuole interne allo slum.

Silvia ed io non abbiamo preso foto per ragioni di rispetto, anche e proprio perché ci sarebbe stato da scattare in continuazione scene per noi da incubo. Questa però è una foto di gruppo che hanno voluto far loro in cima a un cucuzzolo di spazzatura.

 Abbiamo avuto il privilegio di assistere per un’ora in una affollatissima seconda media, seduti ai banchi con i ragazzini, a una “lezione” sul risparmio (proiettarsi nel futuro non è banale da quelle parti) tenuta dai facilitatori, mezza in inglese mezza in swahili. Interessantissime le domande dei ragazzi, tipo “Che succede se chiedo a mia madre di tenermi i risparmi e lei li spende”? Ovvero, l’intersezione tra teoria e vita.

La scuola si chiama Bejing (immaginare da dove sono venuti i primi soldi) e fa parte integrante dello slum, dove abitano tra i 500 e gli 800.000 esseri umani. Alla fine ci hanno portato a prendere un tè nella “mensa della polizia”, una specie di bar tra una ventina di fatiscenti baracche in muratura dove vivono i poliziotti che da quelle parti dovrebbero rappresentare la certezza dell’autorità.

Un tipo molto professionale ha fatto delle foto mentre giravamo, forse ce le manderanno e allora condivideremo.

Oggi completo cambio di prospettiva. Dopo l’eliporto e una insalata in un caffè gestito da una organizzazione di cooperative di donne, siamo andati a visitare il Nairobi Garage, uno straordinario spazio di co-working tipico di questa non più tanto nuova capitale delle start up. Tra un mese ne aprono un altro più grande dall’altra parte di Nairobi, ne hanno uno a Città del Capo (Sudafrica), uno a Lagos (Nigeria) e presto ne apriranno un altro a Kigali perché, ci hanno spiegato, “pensiamo che il Ruanda sia il nuovo Kenya” in termini di innovazione imprenditoriale e tecnologica.  Mica male come cambiamento di prospettiva fuori dagli stereotipi africani, no?

Una delle organizzazioni che lavora al Nairobi Garage è RefUnite (refugees reunited), che ha costruito una piattaforma digitale per far ritrovare le famiglie disperse dalle fughe e dalle migrazioni. Come dire: i social network sono qualcosa di più di ciò che la stampa italiana (es Michele Serra) pensa che siano!

RefUnite è attiva principalmente nel Corno d’Africa (molti somali, ovviamente, ed eritrei nel loro database di oltre 400.000 profili). Ora sperano di poter fare qualcosa in medio oriente.

Domani altri incontri del genere, poi si prende l’aereo per essere a Roma venerdì.

PS: visto che si parla di scuola, da che cosa si capisce che il Tanganyka (la Tanzania continentale) è stato a lungo colonia tedesca? Ecco un avviso davanti a una libreria di Arusha che propone, crediamo, libri e quaderni per la scuola. In swahili, lingua strutturalmente meticcia :)

 

A Karatu dalle camaldolesi

Evviva! Scriviamo da un internet point sulla strada principale di Karatu (Tanzania), provvisoriamente riconnessi al mondo (ma non altrettanto le nostre macchine di ripresa fotografica, ergo nuovo post “cieco”).

Siamo arrivati al monastero di Santa Caterina delle monache camaldolesi due giorni orsono dopo un viaggio lunghetto ma non troppo in minibus da Nairobi fino ad Arusha, la capitale settentrionale della Tanzania. Li’ ci aspettava suor Noela in persona (amica di Marta e responsabile della foresteria del monastero) e con la loro macchina e altre tre ore di strada abbiamo raggiunto il monastero. Beh, i recensori di TripAdvisor avevano ragione, anche se non ne dubitavamo: un’oasi verde e fiorita sugli altopiani tanzaniani a due passi dal cratere di Ngoro Ngoro.

In questi due giorni abbiamo vissuto sostanzialmente in seguendo, per quanto possibile, la vita delle monache che – cortesissime – ci fanno mangiare con loro. Unico problema (culturale?) e’ che tutte si stupiscono – alcune diremmo che si indignanno – che mangiamo troppo poco. Vorrebbero riempirci i piatti continuamente e noi letteralmente non ce la facciamo. Ci dicono che “assaggiamo” e che “non sappiamo mangiare” (in italiano nel testo, ovviamente, visto che una gran parte di loro parla regolarmente italiano). Cerchiamo di non deluderle, ma se uniamo questa esperienza ai tre pasti al giorno completi (anche li’ di cucina italiana) dei lodge del nostro amico Riccardo, temiamo di dove digiunare fino a Natale quando torniamo.

La mattina Lodi e la sera Vespro con loro. Altra esperienza interessante, con una postulante che ci indica sul salterio il punto dove siamo – ovviamente in Swahili. Per ora riconosciamo le parole dio, signore e “per sempre”. Ma anche che le preghiere che cominciano “Salamu Maria…” e “Baba…” sono quelle che pensiamo che siano. Ieri sera ci e’ sovvenuto di avere l’intera bibbia in italiano scaricata sui nostri telefonini e questa mattina abbiamo anche cercato di seguire salmi e letture nel testo italiano. Un lavoro di equilibrio non facile, ma interessante. Un brano della lettera ai Galati ci ha fatto anche scoprire che “legge” in swahili si dice “sharije”. E’ noto che ci sono una enorme quantita di prestiti arabi, ma questa fa un po’ strano, no?

Ieri pomeriggio, guidati da suor Prudenziana, abbiamo fatto una passeggiata dietro al monastero, visitando la scuola elementare che si trova a pochi metri, il mulino per il mais che hanno messo su e un luogo di ritrovo con bevande, negozietto e televisione, che la buona prudenziana ha paragonato a una “Casa del popolo” (ha frequentato Faenza e dintorni…). Eravamo naturalmente preparati a trovare una scuola piuttosto malmessa e tale era, ma ci hanno particolarmente colpito le case dei maestri che la circondano: minuscole, malmesse, latrine all’esterno, ecc. Il fatto che si tratti delle abitazioni degli insegnanti, da’ il metro della situazione.

Stamattina con suor Scolastica a Karatu, la cittadina a una decina di chilometri di distanza dal monastero.  Visita al una piccola casa che le monache hanno in citta’ per ospitare le ragazze che devono finire le superiori e a un terreno che gestiscono. Poi siamo riusciti a risolvere il problema del contante, i nostri bancomat non funzionavano e apparentemente neppure le carte di credito. Alla fine – grazie a suor Scolastica – in uno sportello bancario mobile (una specie di camper) c’era un bancomat che ha riconosciuto e pagatoo. la nostra carta di credito. Cosi’ ci sentiamo piu’ tranquilli. Quindi “affermazione di indipendenza” nei confronti della iperprotettiva suora e ci siamo sganciati per fare un giro da soli in citta’ fra mercati e polvere rosse. Il progetto e’ che tra un’ora prendiamo un “apetto”-taxi, ma solo per un tratto, gli ultimi chilometri vogliamo farli a piedi.

Domani gita “turistica” al lago Manyara e al suo parco. Poi si vedra’.

Doccia nella savana

  Paura, eh? 

Invece no, nonostante l’immagine che rimanda al suo più famoso parente che ha fatto carriera a Hollywood, qui il gattone non ruggiva né cercava di spaventare nessuno – semplicemente sbadigliava. Vedete alla fine il contesto quanto conta?

Vabbè, ma a noi la foto piaceva e siccome siamo succubi del cinema americano (ma anche delle locandine dei vecchi circhi italiani), ve l’abbiamo piazzata così in cima.

Non è peraltro che le sue intenzioni fossero necessariamente benevole. in realtà si trovava da quelle parti sin dalla mattina insieme a quattro leonesse a far la posta a un paio di leopardi, costretti a rimanere per ore sugli alberi (il leone non si arrampica). 

   
Lei, la mattina l’avevamo vista che cercava di avvicinarsi al maschio “inalberato”, ma avvertiti i leoni si è arrampicata anch’essa. Non è che ai leoni piacciano i leopardi da mangiare, ma gli è che a quegli sciagurati di leopardi piacciono i cuccioli di leone e così papà e mamme corrono ai ripari.

Questo è stato l’ultimo serio avvistamento, dopo una corsa pazza per la savana per seguire la caccia di una iena a uno gnu, si è conclusa nel modo prevedibile, ma francamente orribile che vi risparmieremo. In serata, comunque, zuppi di pioggia (qui comincia a piovere seriamente) siamo arrivati per la nostra ultima notte al Masai Mara nel lodge dei lodge: Saruni Wild, un “campo tendato” sull’orlo della savana dove siamo arrivati che il sole tramontava.

  
Quando si parla di tende, in questo caso si parla di camere con bagno costruite in tela, arredatissime e serviti di tutto punto. Qui la visione di stamane dal nostro letto:  

  L’unico segno di essere, diciamo, in campeggio, è che non c’è elettricità e che per farti fare la doccia un gentile signore – all’esterno della tenda dove tu sei nudo come un verme – viene su appuntamento a riempire un secchio di tela impermeabile con 20 litri di acqua all’uopo riscaldata, che quindi issa con una carrucola sopra il livello della tua doccia. Un tubo provvede a far passare l’acqua dal secchio alla cipolla, così tu ti lavi.

Beninteso, il signore è sempre là e quando tu tiri una catena per chiudere, ti chiede da dietro la tela: “Finished?”

Alle 10:30 eravamo al campo di volo di Mara North per rientrare a Nairobi. Quarantacinque minuti di volo, durante i quali Silvia ha lavorato assai per imparare a pilotare un aereo. 

 Vabbè, però la sera prima davanti al fuoco nella notte della savana faceva la sua figura :-) 

 Siamo in questo momento a Nairobi, dove letteralmente diluvia. Ci siamo goduti alcuni dei più celebri teschi di ominidi al Museo Nazionale (il Kenya – e anche la vicina Etiopia, per la verità – è la culla dell’umanità, visto che tutto sembra cominciato da queste parti). 

Domattina di buon ora si parte in bus per la Tanzania, Karatu e le consorelle di Marta. Un’altra bella storia.

Le pecore non sono gazzelle

Due giorni “veramente” nella savana, nel senso che le uniche cumunicazioni possibili erano quelle da persona a persona, orfani di una connessione internet pazzarella e già Mario si sentiva spaesato. Nobbuono, ma così va la vita, non siamo più ai tempi in cui il primo pezzo di Stanley partito alla ricerca del dott. Livingstone uscì sul New York Herald mesi dopo essere stato inviato dal cuore dell’Africa – quando, peraltro, il famoso incontro (“Dr. Livingstone, I presume?”) era già avvenuto da un mese. 

Insomma, qui si sono promessi aggiornamenti frequenti e noi accumulavamo foto e notizie senza poterle comunicare. Ora pare qualche connessione ci sia, quindi prepariamo questo testo sperando nella buona sorte (ma niente foto, per non rischiare). Ci proviamo, sennò avrete tutto insieme poi.

È il terzo giorno al Saruni Mara, davanti alla nostra “stanza” (mezzo in muratura, mezzo in tela) c’è un prato dove il primo giorno siamo andati a fare due passi, solo per essere inseguiti da un cameriere che ci ha spiegato che era pericoloso: di lì a due ore, poco prima del crepuscolo, zebre, babbuini, impala (splendide antilopi dalle corna a forma di lira) sono venuti a passeggiare e a pasteggiare qui davanti. 

Con loro anche un eland, che per muso e corna sembra una specie di enorme antilope, ma è parente sia pur remoto dei bovini. Questo però è un eland speciale, lo chiamano “resident eland” perché ha eletto il lodge a sua residenza e ogni tanto si affaccia alla porta o si stende a ruminare davanti al negozietto. Chi ha un account Facebook può vederne una immagine che ho postato due giorni fa, gli altri dovranno aspettare.

Ha piovuto parecchio (sante giacche a vento e perfino santi ponchi), non dovrebbe essere un gran guaio perché ti portano sempre in giro con il fuoristrada, ma si tratta di un fuoristrada tutto aperto per agevolare l’avvistamento di animali – e l’entrata della pioggia. Nelle molte ore di sole, però ci scottiamo.

Siamo nel santuario faunistico più santuario faunistico di tutto il Kenya e – qualcuno dice – di tutta l’Africa. Le “prede” più ambite sono come ovvio i grandi animali (leoni, leopardi, ghepardi, elefanti, bufali e rinoceronti), ma c’è un fascino assoluto ad attraversare le grandi praterie costellate di centinaia di antilopi (di Grant e di Thompson), di impala, zebre, gnu, facoceri, struzzi e giraffe, spesso tutti insieme e – come dire – nella stessa inquadratura. Poiché facciamo le nostre visite nel North Mara Conservancy (una specie di immensa riserva privata ai margini del parco nazionale propriamente detto) la nostra auto può attraversare questi animali che brucano, ruminano o trotterellano e si aprono spostandosi al nostro passaggio. 

Il che ha dato il destro a Silvia di coniare uno dei suoi detti memorabili: “Le pecore non sono gazzelle” [“hele,belle…”, “stupidi!”]. Nel senso che invece di aprirsi come il mar rosso o appunto le gazzelle al nostro passaggio, devono essere bersagliate con pietre dai pastori masai perché ci lascino il passo.

Di pecore e anche di mucche ne abbiamo viste tante giovedì al mercato settimanale di un villaggio qui nei pressi. Stavamo per entrare nel recinto insieme a Silvia, quando ci siamo resi conto che all’interno c’erano solo uomini, le uniche donne essendo accovacciate sotto un alberello al centro per vendere bevande agli uomini. Le altre donne erano tutte all’esterno. Secondo la nostra guida in attesa che gli uomini consegnassero loro i proventi delle compravendite, per andare a fare la spesa nei recinti vicini dove erano in mostra vestiti, scarpe, vasellame, frutta, verdura e monili (i monili di perline son cosa assai importante sia per uomini sia per donne).

Quanto agli animali grandi, ci “mancano” solo il leopardo e il rinoceronte, che però ormai qui ce ne sono solo due regalati dal Sudafrica. Scene top:

  • Un branco di iene che sbrana uno gnu (doppia: sia notturna, sia diurna)
  • Un avvoltoio che cattura un piccolo di facocero per poi essere messo in fuga da un gruppo di manguste
  • Una famigliola di leoni che riposa sotto un alberello con tre cuccioletti che prendevano il latte dalla mamma.

 Lo splendido ghepardo (chetah) che pure abbiamo visto, se ne è rimasto buono buono a sonnecchiare e a fare due passi, con grave delusione della guida che sperava partisse in caccia in direzione delle zebre, gnu e antilopi che mangiavano lì vicino. 

Stamattina altra passeggiata a piedi su una “montagna”, che in realtà è una collina qui vicino, con bel panorama e guida – dotatasi per l’occasione di lancia e mazza tradizionali – che temeva incontri con animali. 

Ora altro “game drive” (gita in macchina a cercare animali selvatici) e domani trasferimento a Saruni Wild, dependance tendata del lodge, in luogo che dicono magico. :)

Sulla Montagna Sacra dei Samburu

  
Eccolo qui, il monte Ololokwe, che si erge nel mezzo delle pianure del nord del Kenya. 

Ne abbiamo fatte tante in questi giorni e ora scriviamo dalla nostra seconda tappa, il Saruni Mara lodge, molto più a sud, vicino alla frontiera della Tanzania, ma sembra che essere saliti in cima all’Ololokwe sia stato un fatto straordinario (grandi congratulazioni, notizia che ci precede da un lodge all’altro, ecc.) e così partiamo da qui.

Primo stupore del (ventitreenne) manager del Lodge: pochi ospiti chiedono di effettuare la gita, che pure viene proposta, ma a noi – orfani di una più complessa ascensione al Monte Kenya, cui abbiamo rinunciato in partenza per una serie di ragioni – questa ci è sembrata una buona occasione. Quindi al quarto giorno a Saruni Samburu siamo andati in cima alla montagna che i samburu considerano sacra: sul monte risiede o può risiedere la divinità (unica) nella quale credono, vi si effettuano preghiere e sacrifici propiziatori ecc.

Ma “siamo andati” è una espressione povera per ciò che è successo. La gita, da un punto di vista tecnico, è più o meno come salire sulla Paganella (Ololokwe è anche alta uguale), ma partendo da Gaggia. Tuttavia, per ragioni di sicurezza, di conservazione, di tradizioni locali e di stile di viaggio della organizzazione della quale siamo ospiti, la gita si è trasformata in una “spedizione”. Oltre a noi c’era il manager del lodge, l’autista-guida del lodge, un ranger in divisa dotato di fucile mitragliatore, una guida-guardiano della zona montana e… due portatori.  

Un’oretta e mezza di salita con un sentiero a zig zag piuttosto faticoso in un bosco di acacie e di altre piante sconosciute, ancora abbastanza al fresco vista l’ora, ci ha portato su un balcone naturale con panorama splendido — dove ci è stato servito un full English breakfast, comprensivo di uova,salsicce, pancetta, marmellate e macedonia, ecc. 

   
Ancora un piccolo strappo, poi una lunga e dolce salita lungo pascoli con rada erbetta qui e lì e qualche pozza, dove i samburu sono autorizzati a portare le mandrie solo in caso di siccità (ma di questo non siamo sicuri di aver ben capito). Come la Paganella dei tempi andati, no?

Non proprio, perché – oltre alle tracce di leopardo intorno al campo base – lungo tutta la salita è stato chiaro che quel sentiero è regolarmente utilizzato dagli elefanti. Come possano gli elefanti salire su un sentiero del genere e perché resta un mistero. Ma la forma e la quantità delle deiezioni facevano escludere si trattasse di camosci o caprioli. Un elefante lo ha fisicamente incontrato la nostra guida, quando dopo dieci minuti di cammino è tornato alla macchina perché si era scordato parte dell’acqua. Noi – purtroppo? – no.

Dopo un’altra oretta e mezza si arriva in cima, con sguardo amplissimo sulle pianure dei Samburu e in fondo, verso sud, sul Monte Kenya coperto da nuvole. 

   
Discesa non proprio agevole, causa terreno cedevole e temperatura oltre i 30•, ma arrivo coperti di gloria, specie – par di capire – per non aver fatto lagne e preteso soste ogni dieci minuti.

Alla macchina, “picnic lunch” apparecchiato con insalata di pasta (a Saruni si cucina prevalentemente italiano), insalata di carote uvetta e altro, pizza con cipolla e peperoni e cosce di pollo al sesamo. Unico difetto: troppo.
I saruni sono un popolo cugino dei più noti masai, con lingua simile e strutture culturali analoghe. Seminomadi, vivono tradizionalmente delle proprie mandrie e delle proprie greggi, in una società divisa rigidamente per fasce di età (ragazzi, guerrieri, uomini sposati-anziani, e anziani “in pensione”), oltre che – naturalmente – per sesso.

Non ne sappiamo moltissimo, ma quel po’ ci è venuto da una “visita al villaggio samburu”, che ci ha messo un po’ a disagio, nonostante l’amabilità del giovane guerriero Robert che ci faceva da guida tra le capanne.  

 
Ci sono tante altre cose e specialmente animali da raccontare, ma vi lasciamo con questa immagine presa due sere orsono. Ora ci prepariamo per la nostra prima “game drive”, che sarà notturna. Qui fa più freddo (siamo vicini a duemila metri e piove un po’, ma ci copriremo. :-)